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Rerum novarum

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Rerum novarum
Lettera enciclica
Stemma di Papa Leone XIII
Stemma di Papa Leone XIII
PonteficePapa Leone XIII
Data15 maggio 1891
Anno di pontificatoXIV
Traduzione del titoloDelle cose nuove
Argomenti trattatiQuestioni sociali
Enciclica papale nºXXXVIII di LXXXVI
Enciclica precedenteIn Ipso
Enciclica successivaPastoralis Vigilantiae

Rerum novarum (in italiano "Delle cose nuove") è un'enciclica sociale promulgata il 15 maggio 1891 da papa Leone XIII con la quale per la prima volta la Chiesa cattolica prese posizione sulle questioni sociali e fondò la moderna dottrina sociale della Chiesa.

Dottrina sociale della Chiesa

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Il movimento cattolico era diviso in varie correnti riguardo all'atteggiamento da tenere nei confronti del capitalismo avanzante: a coloro che prospettavano un avvicinamento al movimento socialista per tentare di mediare in considerazione del radicale ateismo marxista, si opponevano i convinti sostenitori del progresso, del commercio e del laissez faire, concetti rispetto ai quali chiedevano una sostanziale benedizione.

Una corrente significativa era inoltre rappresentata dai corporativisti, che indicavano un ritorno alle istituzioni economiche medievali, al fine di ricomporre la tensione sociale.

L'originalità dell'enciclica risiede quindi nella sua mediazione: il Pontefice, ponendosi esattamente a metà strada fra le parti, ammonisce la classe operaia affinché non dia sfogo alla propria rabbia attraverso inefficaci idee di rivoluzione, di invidia e odio verso i ricchi, e chiede ai padroni di mitigare gli atteggiamenti verso i dipendenti, da non trattare come schiavi. L'auspicio è che fra le parti sociali vi siano accordi e collaborazioni nella questione sociale, ammettendo associazioni «sia di soli operai sia miste di operai e padroni» per la reciproca tutela dei diritti [1].

Viene persino rivolto un invito ai lavoratori cristiani a formare proprie società, piuttosto che aderire a un'«organizzazione contraria allo spirito cristiano e al bene pubblico»[2].

L'enciclica contiene infine una condanna ferma nei confronti del socialismo, della teoria della lotta di classe e della massoneria, preferendo che la questione sociale venga affrontata e risolta dall'azione combinata di Chiesa, Stato, impiegati e datori di retribuzione.

Motivo dell'enciclica: la questione operaia

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L'enciclica si apre riconoscendo che, dopo un lungo periodo di fermento politico, l'attenzione si è spostata verso le questioni economiche e sociali. Le cause principali del conflitto sociale sono identificate in:

  • il rapido sviluppo industriale e tecnologico;
  • il mutamento dei rapporti tra lavoratori e datori di lavoro;
  • l'estrema concentrazione della ricchezza in poche mani, a fronte della crescente povertà delle masse;
  • il rafforzamento della coscienza collettiva degli operai, accompagnata da un deterioramento morale in alcuni ambienti.[3]

La Chiesa, preoccupata per le gravi ingiustizie e l'instabilità sociale, si sente chiamata a intervenire. Pur riconoscendo la difficoltà e i rischi della questione – specialmente nell'equilibrare i diritti e doveri di ricchi e poveri – Papa Leone XIII afferma che è doveroso occuparsi con urgenza delle condizioni dei lavoratori, spesso ridotti a una situazione indegna e disumana.[3]

Con la scomparsa delle antiche corporazioni di arti e mestieri, e in assenza di nuove forme di tutela, i lavoratori sono diventati vulnerabili di fronte alla durezza dei padroni e all'avidità della concorrenza. A peggiorare la situazione contribuiscono:

  • l'usura, più volte condannata dalla Chiesa, ma ancora praticata sotto nuove forme;
  • la concentrazione della proprietà dei mezzi produttivi e dei commerci nelle mani di pochi.

In questo contesto, l'enciclica si propone di offrire principi morali e religiosi per guidare una riforma sociale che ristabilisca la giustizia e promuova la dignità del lavoro umano.[3]

Parte prima - Il Socialismo, falso rimedio

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La soluzione socialista inaccettabile dagli operai

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Il socialismo viene criticato per proporre, come rimedio alle ingiustizie sociali, l’abolizione della proprietà privata e la sua trasformazione in proprietà collettiva, gestita dallo Stato o dal municipio. Secondo questa visione, l’eguaglianza forzata e la redistribuzione uniforme dei beni non risolvono i problemi, ma li aggravano, danneggiando in particolare gli stessi lavoratori, privati della libertà di investire i propri guadagni e migliorare la propria condizione.[3]

La proprietà privata è presentata come scopo naturale del lavoro: il salario, frutto legittimo dell’attività dell’operaio, può essere trasformato in beni durevoli (come la terra), che diventano così estensione del diritto al lavoro stesso. Togliere questo diritto significa privare l’individuo della possibilità di autonomia e progresso.[3]

Infine, la proprietà è considerata un diritto di natura, che distingue l’uomo dall’animale. A differenza del bruto, guidato solo da istinti, l’essere umano possiede ragione e libertà, e quindi ha diritto non solo all’uso dei beni, ma anche al possesso stabile di essi, condizione essenziale per vivere secondo la propria dignità razionale.[3]

La proprietà privata è di diritto naturale

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Il diritto alla proprietà privata è radicato nella natura razionale e libera dell’uomo, che, essendo dotato di capacità previsionali e autonomia, deve poter provvedere non solo ai bisogni presenti ma anche a quelli futuri. Per questo ha diritto non solo all’uso dei frutti della terra, ma anche alla possessione stabile del suolo, quale fonte durevole di sostentamento.[3]

L’origine divina del dono della terra all’umanità non esclude la proprietà privata, poiché Dio ha lasciato all’iniziativa umana la suddivisione concreta dei beni. Pur divisa tra i privati, la terra rimane al servizio di tutti: chi non possiede, partecipa mediante il lavoro, che è via universale alla sussistenza.[3]

Inoltre, coltivando e trasformando la terra con intelletto e fatica, l’uomo vi imprime la sua personalità, rendendola un’estensione di sé. Questo giustifica il possesso privato come un diritto naturale fondato sull’unione tra lavoro e persona, e quindi meritevole di tutela.[3]

La proprietà privata sancita dalle leggi umane e divine

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Il diritto alla proprietà privata trova giustificazione nella legge naturale, nella ragione e nella tradizione storica. È ingiusto negare la proprietà del suolo a chi lo ha trasformato con il proprio lavoro, rendendolo fruttuoso e produttivo. Il lavoro umano imprime un valore aggiunto ai beni naturali, rendendoli inseparabili dall’opera dell’uomo stesso.[3]

Pertanto, il frutto del lavoro deve appartenere al lavoratore, come l’effetto alla sua causa. La divisione dei beni e la loro appropriazione privata sono riconosciute dal genere umano come conformi alla natura e fondamentali per la convivenza sociale pacifica. Le leggi civili giuste non fanno che confermare e tutelare questo diritto, che è già radicato nella legge divina, la quale proibisce anche solo il desiderio dei beni altrui.[3]

La libertà dell'uomo

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Il diritto al matrimonio è presentato come un diritto naturale e primordiale, che nessuna legge umana può sopprimere o alterare nei suoi fini divini, stabiliti da Dio con il comando «Crescete e moltiplicatevi» (Gen 1,28). L’uomo è libero di scegliere il proprio stato di vita, ma, una volta costituita, la famiglia è riconosciuta come una società reale e anteriore allo Stato, dotata di diritti e doveri autonomi.[3]

Il diritto di proprietà, già valido per l’individuo, si rafforza ulteriormente quando riferito all’uomo come capo della famiglia, poiché in lui la personalità sociale si esprime in modo più pieno, rendendo più profondo e legittimo il suo ruolo e i suoi diritti all'interno del consorzio domestico.[3]

Famiglia e Stato

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La famiglia è descritta come una società naturale fondata sul diritto e dovere inviolabile del padre di mantenere e proteggere la prole. Per impulso naturale, il padre riconosce nei figli un’estensione di sé stesso, il che lo spinge a provvedere al loro futuro tramite il possesso e la trasmissione di beni produttivi in eredità.[3]

La famiglia, dotata di autorità propria (potere paterno), ha diritti pari, se non superiori, a quelli dello Stato, poiché è anteriormente e logicamente precedente alla società civile. Di conseguenza, i diritti familiari sono considerati più naturali e fondamentali.[3]

Qualora lo Stato non tutelasse questi diritti ma li ostacolasse, cesserebbe di essere uno strumento di giustizia, rendendo la convivenza civile non auspicabile, ma da respingere.[3]

Lo Stato e il suo intervento nella famiglia

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È considerato un errore grave attribuire allo Stato un potere illimitato sulla famiglia, la quale è un'istituzione naturale e originaria rispetto alla società civile. L’intervento statale è legittimo solo in casi eccezionali, come gravi difficoltà economiche o conflitti familiari, e ha lo scopo di ristabilire la giustizia, non di sostituirsi ai genitori.[3]

La patria potestà deriva direttamente dalla natura umana e dal legame vitale tra genitori e figli, che sono visti come un’estensione della personalità paterna. Lo Stato, quindi, non può né assorbirla né annullarla, poiché i figli entrano nel corpo sociale attraverso la famiglia.[3]

L’ideologia socialista, che propone di sostituire la cura parentale con quella dello Stato, è accusata di violare la giustizia naturale e di minare l’unità e l’autonomia della famiglia, dissolvendone i fondamenti morali e sociali.[3]

La soluzione socialista è nociva alla stessa società

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La proposta socialista di comunanza dei beni è rifiutata in quanto ingiusta e foriera di disordine sociale, conflitti, impoverimento generale e soppressione della libertà individuale. L'abolizione della proprietà privata eliminerebbe gli stimoli all'ingegno e al lavoro, causando una crisi della produzione e una falsa uguaglianza basata sulla misera collettiva.[3]

Tale sistema, secondo la critica, danneggia proprio le classi che pretende di aiutare, viola i diritti naturali, altera il ruolo legittimo dello Stato e compromette la pace sociale. Per questo motivo, ogni progetto di miglioramento delle condizioni dei lavoratori deve avere come fondamento imprescindibile il riconoscimento e la tutela del diritto alla proprietà privata.[3]

Parte seconda - Il vero rimedio: l'unione delle associazioni

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L'opera della Chiesa

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Il testo afferma la centralità della religione e della Chiesa nella risoluzione dei conflitti sociali, in particolare quelli legati alla condizione del proletariato. Pur riconoscendo l'importanza della collaborazione di governanti, ricchi, datori di lavoro e degli stessi lavoratori, sostiene che ogni tentativo sarà inefficace senza l'apporto della Chiesa. Quest’ultima, attingendo al Vangelo, offre insegnamenti morali e sociali che possono mitigare le tensioni, orientando comportamenti e promuovendo iniziative benefiche. Inoltre, auspica una cooperazione tra tutte le classi sociali e un intervento mirato dello Stato per il miglioramento delle condizioni degli operai.[3]

Necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso
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Il testo afferma l'impossibilità di eliminare le disuguaglianze sociali, considerate parte della condizione naturale e immutabile dell’umanità. Le differenze tra gli individui — in intelligenza, salute, capacità — generano necessariamente disparità di ruoli e condizioni, ritenute utili al buon funzionamento della società. Il lavoro stesso, originariamente espressione libera, è diventato fatica e dovere a causa del peccato originale, così come il dolore accompagna inevitabilmente la vita umana. Pertanto, chi promette un mondo senza sofferenza illude il popolo. La soluzione non è nel sovvertire l’ordine naturale, ma nel cercare rimedi altrove, in particolare nella dimensione religiosa e spirituale.[3]

Necessità della concordia
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Il testo respinge l’idea che esista un’inimicizia naturale tra le classi sociali, in particolare tra ricchi e proletari, ritenendola irrazionale e contraria all’ordine voluto dalla natura. Al contrario, si sottolinea la complementarità tra capitale e lavoro, paragonata all’armonia tra le membra del corpo umano. Il benessere sociale dipende dalla cooperazione e non dal conflitto, che genera solo disordine e decadenza. In questo contesto, il cristianesimo è indicato come forza capace di eliminare alla radice le divisioni, promuovendo concordia e giustizia sociale.[3]

Relazioni tra le classi sociali
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  • giustizia: Il testo evidenzia il ruolo fondamentale dell’insegnamento cristiano, custodito dalla Chiesa, nella promozione della giustizia e della concordia tra ricchi e proletari, attraverso il richiamo ai reciproci doveri morali e sociali. Ai lavoratori si richiede fedeltà contrattuale, rispetto verso i datori di lavoro e il rifiuto della violenza; ai padroni, il rispetto della dignità dell’operaio, condizioni di lavoro eque, tempo per la vita religiosa e familiare, e la tutela dei risparmi. Centrale è l’obbligo di corrispondere una giusta mercede, la cui negazione è vista come un peccato grave. L’osservanza di tali principi è indicata come via efficace per superare le cause del conflitto sociale.[3]
  • carità: Il testo sottolinea che la Chiesa, ispirandosi a Cristo, mira a superare i conflitti sociali non solo mediante la giustizia, ma promuovendo un’unione fraterna tra le classi, fondata su una visione trascendente della vita. Solo elevando lo sguardo verso la vita eterna è possibile comprendere il senso autentico dell’esistenza e del bene morale. La vera patria dell’uomo è il cielo, mentre la terra è luogo di prova. Le ricchezze terrene sono moralmente indifferenti, ma è il loro uso che conta davanti a Dio. Cristo ha dato senso al dolore umano rendendolo via di redenzione e merito, offrendo un esempio e una speranza. I ricchi, infine, sono ammoniti: le loro ricchezze non garantiscono salvezza e saranno chiamati a rendere conto rigoroso del loro uso.[3]
  • la vera utilità delle ricchezze: Il testo espone la dottrina cristiana sull’uso delle ricchezze, distinguendo tra possesso legittimo e uso morale. La Chiesa riconosce il diritto naturale alla proprietà privata, considerata necessaria alla vita sociale, ma insegna che i beni devono essere usati come se fossero comuni, in spirito di solidarietà. Superate le necessità personali e familiari, ciò che è superfluo va destinato ai bisognosi, non per obbligo giuridico, ma per dovere di carità cristiana. Tale carità, pur non imponibile per legge, è richiesta dal Vangelo e sarà oggetto di giudizio divino. Ogni ricchezza, materiale o spirituale, è vista come dono di Dio da impiegare per il bene proprio e altrui, secondo la logica della provvidenza e della misericordia.[3]
  • vantaggi della povertà: Il testo afferma la dignità della povertà e del lavoro manuale alla luce dell’insegnamento e dell’esempio di Cristo, che da ricco si fece povero e visse come lavoratore. La Chiesa insegna che la vera grandezza dell’uomo risiede nella virtù, accessibile a tutti, indipendentemente dalla condizione sociale. Anzi, Dio dimostra una particolare predilezione per i poveri, proclamandoli beati e offrendo loro consolazione. Questi principi promuovono l’umiltà nei ricchi e la dignità nei poveri, favorendo così la riconciliazione e l’armonia tra le classi sociali.[3]
  • fraternità cristiana: Il testo esalta l’ideale evangelico della fraternità universale come fondamento dell’armonia sociale. La Chiesa insegna che tutti gli esseri umani hanno origine comune in Dio, sono ugualmente redenti da Cristo e chiamati alla figliolanza divina, diventando così fratelli non solo tra loro, ma anche con Cristo stesso. I beni naturali e spirituali sono considerati patrimonio condiviso dell’umanità, e la salvezza è offerta a tutti senza distinzione. Questo ideale cristiano, se pienamente vissuto, eliminerebbe i conflitti sociali e ristabilirebbe la pace tra le classi.[3]
Mezzi positivi
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  • la diffusione della dottrina cristiana: La Chiesa, oltre a indicare i rimedi ai mali morali e sociali, si adopera attivamente per applicarli, svolgendo una funzione educativa e formativa attraverso la diffusione della propria dottrina tramite Vescovi e clero. Essa mira a trasformare interiormente gli individui, orientandone la volontà secondo i precetti divini. In tale opera, considerata di primaria importanza, la Chiesa possiede un'efficacia unica, poiché si avvale di strumenti spirituali conferitile da Cristo, dotati di virtù divina, capaci di influenzare profondamente l’animo umano, disciplinare le passioni e promuovere l’amore verso Dio e il prossimo, superando ogni ostacolo morale.[3]
  • il rinnovamento della società: Secondo la visione cristiana, il cristianesimo ha operato una profonda trasformazione della società antica, rappresentando un autentico progresso dell’umanità, una rinascita morale e un perfezionamento senza precedenti. Tale rinnovamento è attribuito integralmente a Gesù Cristo, la cui vita e dottrina hanno impregnato la civiltà attraverso la fede, i precetti e le leggi evangeliche. Ne consegue che l’unico vero rimedio ai mali sociali consiste in un ritorno ai principi cristiani originari. Il testo afferma un principio fondamentale: la rigenerazione di una società decadente si ottiene solo ripristinando i valori che ne furono all’origine. Questo vale per l’intero corpo sociale e, in particolare, per la classe lavoratrice, considerata la componente più numerosa e significativa.[3]
  • la beneficenza della Chiesa: La Chiesa cattolica, pur avendo come fine primario la salvezza delle anime, non trascura il benessere morale e materiale degli individui, in particolare dei proletari. Essa agisce indirettamente promuovendo la virtù cristiana, che, frenando i vizi e incoraggiando la sobrietà e il risparmio, contribuisce anche alla prosperità terrena. Inoltre, interviene direttamente a favore dei poveri attraverso opere di carità e istituzioni di assistenza. Fin dalle origini del cristianesimo, la carità fraterna ha avuto un ruolo centrale, manifestandosi in forme concrete come l’aiuto ai bisognosi e la creazione di patrimoni destinati esclusivamente al soccorso dei poveri. La Chiesa ha promosso numerose iniziative caritatevoli, spesso più efficaci e compassionevoli rispetto alla beneficenza legale moderna. Questa carità, secondo la dottrina cristiana, è una virtù soprannaturale che trova origine nel cuore di Cristo e può essere pienamente vissuta solo all’interno della Chiesa.[3]

L'opera dello Stato

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Nel brano si afferma che la questione operaia non può essere risolta senza l'intervento e la cooperazione di tutti i soggetti coinvolti, secondo un principio di collaborazione armoniosa, analogo all'ordine provvidenziale che regola il mondo. Particolare rilievo viene attribuito al ruolo dello Stato, inteso non secondo le sue concrete forme storiche o nazionali, ma nel suo concetto ideale, fondato sulla retta ragione e in piena consonanza con la dottrina cattolica, come delineato nell'enciclica Immortale Dei sulla Costituzione cristiana degli Stati.[3]

Il diritto d'intervento dello Stato
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Il testo sottolinea il dovere dei governanti di promuovere il benessere generale attraverso leggi e istituzioni ordinate al bene comune, esercitando la prudenza civile. La prosperità delle nazioni dipende da fattori quali i buoni costumi, la solidità della famiglia, il rispetto della religione e della giustizia, una fiscalità equa, e lo sviluppo equilibrato di agricoltura, industria e commercio. Lo Stato, nel rispetto della propria funzione, può così contribuire legittimamente al miglioramento delle condizioni anche della classe operaia, riducendo la necessità di interventi eccezionali o alternativi.[3]

  • per il bene comune: Il testo afferma che lo Stato, in quanto unità armonica, comprende tutte le classi sociali, alte e basse, riconoscendo a ciascun cittadino, compresi i proletari, pari dignità e diritti naturali. Poiché i lavoratori costituiscono una parte essenziale, e spesso maggioritaria, del corpo sociale, è dovere imprescindibile dello Stato tutelarne il benessere. Trascurarli costituirebbe una violazione della giustizia, che impone di dare a ciascuno il proprio. In tale prospettiva, tra i compiti fondamentali dei governanti si colloca la pratica della giustizia distributiva, da esercitarsi con equità verso tutte le classi.[3]
  • per il bene degli operai: Il testo afferma che, pur essendo tutti i cittadini chiamati a contribuire al bene comune, tale cooperazione assume forme diverse secondo il ruolo sociale di ciascuno. La società umana, per sua natura, implica una varietà di condizioni e funzioni: accanto ai governanti, legislatori e giudici, che operano direttamente per il bene pubblico, anche i lavoratori manuali, sebbene in modo indiretto, vi contribuiscono in modo essenziale. Il lavoro dei proletari, specie in agricoltura e manifattura, è fonte primaria della ricchezza nazionale e condizione necessaria per il benessere materiale, che a sua volta sostiene l’esercizio della virtù. È quindi giusto che lo Stato garantisca agli operai una parte equa dei frutti del loro lavoro e condizioni di vita dignitose, favorendo ogni misura atta a migliorarne lo stato, in quanto ciò giova all’intera società.[3]
Norme e limiti del diritto d'intervento
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Il testo ribadisce il principio secondo cui lo Stato non deve assorbire l’individuo o la famiglia, ma rispettarne l’autonomia entro i limiti del bene comune e dei diritti altrui. Tuttavia, spetta ai governanti proteggere sia l’intera società sia le sue parti, poiché il potere politico, di origine divina, esiste per il bene dei governati. L’intervento statale è quindi legittimo quando si verifica un danno sociale o individuale non altrimenti evitabile. In particolare, lo Stato ha il dovere di garantire l’ordine pubblico, il rispetto della religione, la giustizia sociale, il decoro dei costumi, e la salute dei cittadini. Deve intervenire in situazioni critiche come scioperi, disordini, degrado morale nelle officine, oppressione dei lavoratori, condizioni lavorative nocive o inadeguate. Tale intervento deve restare proporzionato e mirato a correggere o prevenire i danni. Inoltre, nella tutela dei diritti, lo Stato deve prestare speciale attenzione ai poveri e ai deboli, come gli operai, che richiedono una protezione prioritaria rispetto alle classi abbienti, più capaci di difendersi autonomamente.[3]


Casi particolari d'intervento
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  • difesa della propertà privata: Il testo sottolinea l’importanza fondamentale della tutela della proprietà privata da parte dello Stato, specialmente in un contesto sociale segnato da crescenti cupidigie e ideologie sovversive. Sebbene sia legittimo che gli operai aspirino a migliorare la propria condizione, ciò non può avvenire a danno altrui o in nome di un’uguaglianza ingiusta che nega i diritti di proprietà. Di fronte al rischio di disordini fomentati da agitatori animati da dottrine errate, è compito dello Stato intervenire con leggi sagge e ferme, per proteggere sia gli operai onesti da influenze pericolose, sia i proprietari da ingiuste spoliazioni.[3]
  • difesa del lavoro :
    • contro lo sciopero: Il testo evidenzia che scioperi frequenti, spesso causati da orari eccessivi e salari insufficienti, rappresentano un grave disordine che danneggia non solo datori di lavoro e operai, ma anche il commercio e l’interesse pubblico, mettendo a rischio la pace sociale. Lo Stato ha quindi il dovere di intervenire, non solo per contenere le conseguenze, ma soprattutto per prevenirle mediante leggi adeguate, eliminando per tempo le cause del conflitto tra lavoratori e imprenditori.[3]
    • condizioni di lavoro :Il testo afferma il dovere dello Stato di proteggere l’operaio sia nei beni spirituali sia in quelli materiali. Innanzitutto, si sottolinea la centralità della dignità dell’anima umana, creata a immagine di Dio, e il diritto-dovere inalienabile di ogni persona a perseguire la perfezione spirituale. Da ciò deriva, tra l’altro, la necessità del riposo festivo, concepito non come ozio, ma come tempo dedicato alla religione e al culto divino. In ambito materiale, lo Stato deve difendere i lavoratori dagli abusi degli speculatori e garantire condizioni lavorative umane. Il lavoro non deve superare i limiti fisici e morali della persona, e il riposo deve essere proporzionato all’intensità e natura delle mansioni, tenendo conto di età, salute, sesso e circostanze ambientali. In particolare, si condanna lo sfruttamento di donne e bambini, sottolineando l’importanza della loro tutela per la salute, l’educazione e l’equilibrio familiare. Ogni contratto lavorativo deve implicare il diritto al riposo, e ogni patto contrario è da considerarsi immorale.[3]
    • la questione del salario: Il testo affronta il tema del salario giusto, sottolineando che non può essere determinato unicamente dal libero accordo tra padrone e operaio. Sebbene il contratto tra le parti sia formalmente valido, esiste un principio di giustizia naturale che precede tale accordo: il salario deve essere sufficiente a garantire all'operaio il sostentamento personale e familiare, in modo frugale ma dignitoso. Il lavoro, infatti, è al contempo personale (espressione della libertà dell’individuo) e necessario (mezzo di sopravvivenza imposto dalla natura). Quando l’operaio, spinto dal bisogno, accetta condizioni salariali inferiori al giusto, si configura una forma di coercizione mascherata, in contrasto con la giustizia. Pertanto, l’intervento dello Stato è legittimo non solo per garantire il rispetto formale dei contratti, ma anche per vigilare sul rispetto della giustizia sostanziale. Tuttavia, data la complessità e la varietà delle situazioni, il compito specifico di definire condizioni più dettagliate (come salario, orario, sicurezza sul lavoro) dovrebbe essere affidato a organismi rappresentativi (collegi), con lo Stato che funge da garante e supporto, evitando indebite ingerenze.[3]
    • educazione al risparmio: Il testo evidenzia l’importanza del salario sufficiente per permettere all’operaio non solo il sostentamento, ma anche la possibilità di risparmiare e acquistare proprietà private. La tutela del diritto di proprietà è considerata fondamentale per migliorare la condizione sociale ed economica della classe operaia, favorendo una più equa distribuzione della ricchezza nazionale. Si sostiene che una maggiore diffusione della proprietà privata ridurrebbe il divario tra ricchi e poveri, stimolerebbe la produttività e rafforzerebbe l’attaccamento degli individui alla propria terra e patria. Tuttavia, il testo sottolinea che la proprietà non deve essere gravata da imposte eccessive, poiché questo diritto ha fondamento nella legge naturale e lo Stato può solo regolarne l’uso in funzione del bene comune, senza annientarlo. Imporre oneri sproporzionati sarebbe ingiusto e contrario alla dignità umana.[3]

Tutela dei ceti deboli

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«Se con il lavoro eccessivo o non conveniente al sesso e all'età, si reca danno alla sanità dei lavoratori; in questi casi si deve adoperare, entro i debiti confini, la forza e l'autorità delle leggi.»
«Nel tutelare le ragioni dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi, forte per sé stesso, abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che mancano di sostegno proprio, hanno speciale necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato. Perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e dei bisognosi, lo Stato deve di preferenza rivolgere le cure e le provvidenze sue.»

Avendo a cuore la tutela dei diritti delle donne e dei fanciulli, che sovente erano i lavoratori maggiormente sfruttati, l'enciclica propone anche di riservare alle donne mansioni a loro consone, anche dal punto di vista morale e del loro ruolo nell'educazione della prole.

«Un lavoro proporzionato all'uomo alto e robusto, non è ragionevole che s'imponga a una donna o a un fanciullo. […] Certe specie di lavoro non si addicono alle donne, fatte da natura per í lavori domestici, í quali grandemente proteggono l'onestà del sesso debole, e hanno naturale corrispondenza con l'educazione dei figli e il benessere della casa.»

Preparazione, sviluppi e contesto

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L'enciclica fu resa possibile dagli scritti dei precursori del personalismo economico, in particolare dei padri gesuiti Luigi Taparelli D'Azeglio e Matteo Liberatore. Il secondo fu uno degli estensori del documento insieme al domenicano cardinale Zigliara. Nel redigere l'enciclica, il Papa richiese la collaborazione di Vincenzo Tarozzi, segretario per le lettere latine.[4]

Le idee della Rerum novarum furono riprese, integrate e aggiornate nel corso del Novecento dalla Quadragesimo anno di papa Pio XI, dalla Mater et magistra di papa Giovanni XXIII, dalla Populorum progressio di papa Paolo VI e dalla Centesimus annus di papa Giovanni Paolo II.

L'enciclica è considerato un testo importantissimo dell'Ottocento, che insieme al Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels e al Saggio sulla libertà di Mill può fornire un quadro completo delle posizioni sociali risalenti alla nascita della borghesia.

Per onorare il centenario della Rerum novarum, fra il 16 novembre 1991 e il 1º marzo 1992 fu organizzata nel Braccio di Carlo Magno (il corridoio che connette la metà meridionale del colonnato di Piazza San Pietro con la basilica) una grande esposizione di dipinti, visitata da decine di migliaia di persone, che comprendeva opere di Mosè Bianchi, Giovanni Fattori, Plinio Nomellini, Vincenzo Cabianca, Camille Corot, Giuseppe De Nittis, Jean François Millet e altri[5].

In occasione del centesimo anniversario della pubblicazione della Rerum novarum, papa Giovanni Paolo II promulgò l'enciclica Centesimus annus, che aggiorna la dottrina sociale della Chiesa alla luce dei cambiamenti economici avvenuti con la dissoluzione del sistema comunista e l'avvio della globalizzazione.[6]

  1. ^ Rerum novarum, 36
  2. ^ Rerum novarum, 40
  3. ^ a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z aa ab ac ad ae af ag ah ai aj ak al am an ao ap Rerum Novarum
  4. ^ Maria Vittoria Melchioni, Castelfranco commemora monsignor Tarozzi a cento anni dalla morte, in Gazzetta di Modena, 16 dicembre 2018. URL consultato il 18 dicembre 2023.
  5. ^ Catalogo: A cura di Giuseppe Morello, Il lavoro dell'uomo da Goya a Kandinskij, Milano, Fabbri Editori, 1991.
  6. ^ Centesimus annus (1º maggio 1991) | Giovanni Paolo II, su www.vatican.va. URL consultato il 26 maggio 2023.

Voci correlate

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Altri progetti

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Collegamenti esterni

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